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Shadow

Storia di “maiali che volano” e di una finale da giocare

Molto spesso la pallacanestro regala fantastiche storie, e parafrasando quanto scritto da un grande allenatore di serie A nel suo libro, si potrebbe dire che “hanno inventato il Basket perché la vita da sola non basta”. Forse è proprio ciò che devono aver pensato tutti i protagonisti di questa storia.

Sicuramente arrivare a disputare le finali nazionali di 3 vs 3 è stata una vera gioia; una gioia di quelle che capitano solo quando si è giovani e non si ha ancora la consapevolezza di quello che si sta vivendo.  Giungere a nemmeno 14 anni tra le prime 20 squadre d’Italia, vincere la gara del tiro da tre punti nel più famoso torneo della penisola non renderà di certo i nostri piccoli amici dei grandi giocatori, ne assicurerà loro un futuro da protagonisti nella NBA. Si porteranno dietro i ricordi, l’amicizia, la voglia di farcela insieme e il credere in se stessi: elemento fondamentale per ogni aspetto della vita. E’ la magia della Pallacanestro.

Giacomo, Lorenzo, Tommaso e Alessandro sono stati solo la punta di un grande iceberg; un blocco di ghiaccio formato dai loro compagni di squadra che da casa hanno spinto con il pensiero ogni singolo tiro. E’ da queste cose che si capisce quanto il Basket non sia solo “Basket”. E’ uno sport che crea legami e famiglie; uno sport che insegna dolori e gioie; è una palestra importante, perché come detto prima: la vita da sola non basta.

Con umiltà e dedizione dovranno continuare a crescere, a migliorarsi e non solo come giocatori, ma come uomini.  Che sia solo un inizio, un esempio per centinaia di ragazzi più piccoli di loro e per decine di ragazzi più grandi: capire che il basket in questa città non è fatto di egoismi o di voglia di emergere schiacciando tutti per affermare la propria supremazia. Deve essere funzionale ad una crescita collettiva, dove l’individualità deve essere messa a disposizione del collettivo, della squadra, della società, della famiglia. Solo così si diventa giocatori e uomini migliori.

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E’ naturale pensare anche ai ragazzi della prima squadra, pronti a giocarsi una finale tra le mille difficoltà che una stagione come questa ha portato. Rinunciare ad un sogno per ripartire dal basso, con poche sicurezze, con facce nuove che ti dicono cosa fare e una nuova “famiglia” intorno. Non è stato facile, non lo sarà in futuro, ma quanto orgoglio si è visto! Amare la maglia è un pregio solo ad alti livelli?

Inutile negare l’evidenza: questo campionato non ha i fasti degli ultimi anni; ma siamo ad Orvieto, abbiamo i nostri ragazzi, abbiamo un obbiettivo: tornare. I regolamenti non ci aiutano, la situazione economica nazionale e locale nemmeno, ma non per questo ci si deve arrendere prima di aver tentato. Poi ci sono i ragazzi: centinaia di giovani atleti che ogni giorno vengono coinvolti in una crescita educativa che solo uno sport così bello può dare. Non è certo cosa da poco. Se ogni singolo atleta, dal più giovane al più vecchio, entrerà in palestra con gioia e con l’orgoglio di far parte di qualcosa di ben più vasto di se stesso, allora qualsiasi strada potrà essere percorsa. Il “noi” deve essere ben più grande della squadra di appartenenza. Per “noi” si deve intendere una società, un gruppo, una città intera. Il nome “Orvieto Basket” rimane, e se si ama questa città e si ama questo sport (Amore. Non passione o piacere), dovrebbero rimanere anche il sorriso, il piacere e l’orgoglio di farne parte.

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